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Essere migrante e lutto migratorio

Essere migrante e lutto migratorio

Sul tema sono reperibili moltissimi contributi, lo stesso sito della Società Psicoanalitica Italiana, nelle sezioni su libri, cinema, dossier,  ne riporta molti. Su questo tema in particolare consiglio la lettura di alcuni testi classici. In ambito psicoanalitico rimando sia al lavoro sull’identità dei Grinberg…., che a quello  sul linguaggio, “La babele dell’inconscio ”, di S. Argentieri, J.Canestri,  J. Amati Meheler.  Invece come autori da percorrere in ambito etnopsicoanalitico ed etnopsicologico, vanno certamente citati F. Fanon, T. Nathan, Duveroix, e molti altri reperibili anche semplicemente consultando internet. Rimando anche alla bibliografia riportata al fondo  di questo piccolo contributo, e alla sezione migranti di questo stesso sito.

Qui farò solo alcuni accenni, di tipo psicologico/psicoanalitico (tralasciando quindi tutto il versante interessantissimo,  a cui rimando, degli studi antropologici, sociologici, politici e geopolitici, economico-finanziari estremamente importanti in merito)  per orientare il lettore e per fare chiarezza sulla mia impostazione.

Innanzitutto il migrante non è solo l’extracomunitario che sbarca sulle nostre coste e che in qualche modo ci interpella, ci incuriosisce e ci inquieta, ma è chiunque lasci il proprio luogo, la propria terra, e per diversi motivi scelga, più o meno liberamente, di vivere in un altro luogo, anche all’interno del proprio stesso paese, con o senza possibilità di ritorno a breve, medio o lungo termine. Vediamo già qui come moltissime sono le variabili in gioco nel processo migratorio:

  1. motivazione alla partenza
  2. libertà o meno di partire
  3. possibilità o meno di ritornare
  4. temporalità (quanto tempo si starà via)
  5. possibilità o meno di aver avuto un tempo per prepararsi alla partenza
  6. possibilità di scelta o meno del luogo dove trasferirsi
  7. contatti personali precedenti con il luogo in cui ci si trasferisce
  8. esistenza o meno di un progetto per il futuro
  9. possibilità di fare progetti
  10. autonomia o meno rispetto ai punti di cui sopra
  11. disponibilità economica
  12. disponibilità culturale
  13. status sociale
  14. esperienze di vita precedenti
  15. curriculum scolastico
  16. eventuali esperienze traumatiche importanti precedenti e indipendenti la scelta migratoria
  17. personalità

La migrazione è un cambiamento e come tale rimanda a tutto quel bagaglio di emozioni che si collegano ai cambiamenti e all’aspetto di catastrofe. Per catastrofe intendo un cambiamento di rotta,  un mutamento di prospettiva ineludibile, ma anche potenzialmente creativo ed evolutivo. Il migrante quindi è una figura che esprime l’inquietante, il Perturbante, l’Unheimlich direbbe Freud, che abita al profondo di noi stessi, quello che ci spaventa perché è straniero, sconosciuto e per questo vissuto come attraente e pericoloso al contempo.

Per esempio  migranti sono anche i ragazzi che per proseguire gli studi, o per migliori possibilità di lavoro nell’ambito della ricerca scientifica per esempio,  cambiano città. Non se ne parla spesso, ma ci sono molti di loro che non reggono al cambiamento, che debbono rientrare, soprattutto tra gli studenti universitari o nella così detta generazione Erasmus. Alcuni scelgono di beneficiare, nel luogo in cui approdano, della possibilità di un breve lavoro terapeutico di sostegno per elaborare il rischio che corrono di far fallire il loro progetto di studio, per un’angoscia che appare incomprensibile (si veda in merito, in questo sito, la voce “paure immotivate”). Altri invece si trovano costretti a rientrare, a rinunciare, in definitiva a vedere fallito un loro progetto, in cui non sappiamo cosa era stato depositato da loro, dai loro genitori, da altro. Spesso sono poi costretti ad investire molte energie per razionalizzare questo fallimento, “farsene una ragione”, come si usa dire,  e “non pensarci più”. Queste cose purtroppo, prima o poi ritornano fuori e si devono affrontare.

Quello che differenzia i diversi migranti è dunque soprattutto la motivazione che li ha spinti  a partire. E le modalità con cui questo “trasloco” è avvenuto. Si comprende facilmente come sia profondamente diverso cambiare casa nella stessa città (fare un “trasloco” appunto) magari per andare in un’abitazione più bella - anche il trasloco infatti è una sorta di “migrazione” che implica il “lutto migratorio” di ambienti in cui abbiamo vissuto emozioni, in cui sono contenuti ricordi da cui dobbiamo congedarci - da un cambiamento che implica il trasloco non solo da una casa, ma da una città, paese, lingua, ambiente, cultura, stile di vita, religione, per sfuggire per esempio ad una guerra facendolo a volte in fretta, di nascosto, rischiando di morire per fuggire.

Alcuni studi hanno dimostrato che chi parte con la “benedizione”, nel senso del consenso  del proprio ambiente, entourage,  e può avere il tempo di organizzare questa partenza, ha più possibilità di successo nel processo migratorio e nel lavoro di integrazione poi nel nuovo paese,  rispetto a chi è dovuto fuggire, magari in fretta, o a chi ha lasciato la propria terra per un contrasto, un dissidio, e non ha avuto la benevolenza in questo dei propri familiari. In questi ultimi rimane un non detto, una sorta di “colpa” la cui elaborazione non è sempre agevole. Ricordo una signora della ex Jugoslavia che raccontava come, durante la guerra degli anni ’90, si sia ritrovata che, mentre al mattino stendeva i panni in terrazza, poche ore dopo, nel pomeriggio, stava scappando con poche cose verso l’Italia dove poi si sarebbe stabilita.

Il lutto è sempre l’effetto di un distacco che avviene principalmente per la perdita, morte, di una persona cara, ma anche quando ci si stacca da un oggetto, un luogo, una situazione con la quale si era stabilito un qualche legame affettivo. Lasciare la propria terra, e soprattutto essere lasciati andare dalla propria terra che nulla fa per trattenerci – come fanno certe madri poco attente e interessate al proprio figlio (in merito ascoltate su youtube la bellissima canzone Jon, di Gbrjia…. Albanese….) - può essere anche estremamente doloroso mentalmente.  Questo dolore spesso si esprime nel corpo, divenendo un dolore fisico, molto più facile da essere pensato, accettato e riconosciuto rispetto al dolore mentale. E’ vero che cambiando un paese, e quindi cambiando anche semplicemente alimentazione, clima,  intensità e durata della luce del sole (pensate anche solo semplicemente ai nostri conterranei  che, magari per banali motivi di studio o di lavoro, passano dalla luce del sole della Sicilia all’oscurità e alle piogge della Germania di Amburgo!) si viva uno stato di disorientamento e ci si ritrovi a dover fare il lutto del conosciuto e perduto. E questo,  in modo sano viene risolto trovando analogie, similitudini, accoppiamenti. Si dice per esempio che molti Afghani si trovino bene a Trieste perché il Carso assomiglia in qualche modo al loro paese. Così ho sentito, per contro, di una giovane concittadina trasferitasi a Milano per lavoro che anche dopo molto tempo afferma di sentirsi disorientata in città perché le manca il riferimento del mare.

Se a tutto questo abbiniamo l’esperienza di un periodo più o meno lungo in un territorio denso di conflitti violenti, in preda alla guerra, alle persecuzioni politiche, al bisogno di fuggire per sopravvivere, ma anche ad un viaggio, verso l’Occidente, altrettanto pericoloso, costoso, denso di incognite e violenze innominabili subite, comprendiamo bene come si sia disposti a tutto per salvarsi, ma come questo poi si paghi con un dolore interiore spesso così tremendo da dover essere negato, cancellato come ricordo.

Mi viene in mente un ragazzo sudanese a cui era stato chiesto di raccontare la sua storia (aveva attraversato il deserto e poi era arrivato con i barconi a Lampedusa) ad un nutrito gruppo di persone ad una conferenza. Probabilmente gli amici, che lo conoscevano, sapevano qualcosa di lui e pensavano che potesse essere per lui liberatorio, catartico, raccontarsi… così come per noi poteva essere importante ascoltare la sua testimonianza. Ebbene nella situazione pubblica ha bofonchiato qualcosa, non sapeva esprimersi, si ingarbugliava. Non è riuscito a dirci nulla. Io ho compreso che così era invece riuscito a trasmetterci molto di più di una massa di parole che nulla avrebbero potuto aggiungere a ciò che ci ha comunicato con la sua “confusione mentale”! Ci sono cose che per essere dette, hanno bisogno di anni di decantazione. Si pensi semplicemente al silenzio di tanti sopravvissuti alla Shoah… Ma sappiamo bene che “dimenticanza è sciagura, memoria è riscatto" (A. Knoop-Graf)  per cui il rischio è che si creino una sorta di “buchi psichici” (Kogan, 2015, psychic hole), sorta di assenza di memoria e di simbolico (che ben conoscono i figli di chi è sopravvissuto a queste tragedie, ci sono infiniti libri sui figli dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, si veda in merito Dina Wardi, la Zaijde, la stessa Kogan succitata)  che portano a condurre una vita fondata solo sull’ azione, sulla concretezza, senza possibilità di accesso al simbolico e al proprio mondo interiore per il terrore di  incontrare queste voragini di assenza di ricordi in quanto ogni piccolo ricordo può aprire su aspetti tremendi del proprio passato. Una vita in cui solo il dolore del corpo può essere accettato. E che quindi è una vita piena di somatizzazioni anche gravi.

Bisogna fare attenzione però che essere migrante, e in particolar modo un rifugiato, il dover affrontare un cambiamento così importante nella propria vita che implica l’elaborazione di un qualche lutto migratorio, non implica tout court la presenza di una così detta patologia mentale, di un disagio psicologico che necessita di una terapia. Necessita invece di un’attenzione psicologica da abbinare alle attenzioni profuse per dare a queste persone un’accoglienza dignitosa, la possibilità del riconoscimento di una identità, di uno status, della possibilità di essere curati nelle ferite del corpo, essere alimentati adeguatamente con un cibo che non sia troppo “straniero” (a noi la pastasciutta piace molto, ma siamo certi che piaccia anche ad un sudanese?), essere aiutati a comprendere e rispettare la nostra cultura, il nostro stile di vita, perché per prima cosa si è rispettato il loro attraverso il dialogo e la negoziazione sulle abitudini.

Purtroppo la gran parte delle leggi non tiene conto del bisogno di prestare attenzione e cura anche alle ferite più complesse e meno riconoscibili, della mente. Ma non di solo pane vive l’uomo… e non basta cibo, un tetto e una coperta con un medico che valuta lo stato fisico a dare una risposta a domande che non sanno neanche come, e a chi, essere espresse. 

Credo quindi che sia venuto il momento in cui le istituzioni, che si dedicano sia alla salute che all’assistenza di chi è nel bisogno di un’accoglienza solidale, riescano a pensare almeno a formare i propri operatori perché sappiano accogliere anche il disagio psicologico, riservando poi degli spazi specifici, e opportunamente predisposti (che a macchia di leopardo già sono attivi in diverse zone) per accogliere anche possibili richieste di aiuto psicologico che spesso non sanno non solo esprimersi, ma essere pensate. Come se fosse troppo, some se chiedendo un sostegno per comprendersi, dare un senso, un significato alle proprie complesse e confuse emozioni (dopo aver vissuto eventi traumatici per noi impensabili), avesse a che fare solo con la malattia mentale, con il disagio psichiatrico, con la follia. Invece che con la sana percezione di sé e dei propri legittimi bisogni. Investire su questi aspetti avrebbe anche la possibilità, nei tempi lunghi, di prevenire forme di disagio nelle seconde generazioni di cui cominciamo a vedere le terribili potenzialità (leggere il dossier su terrore e terrorismo sul sito della Società Psicoanalitica Italiana).

Per avere un minimo di bibliografia consultare i lavori dei seguenti Autori:

  • Tahar Ben Jelloum  Le pareti della solitudine – le pareti di un dolore inesprimibile attraverso la poesia di un testo unico
  • Leon e Rebeca Grinberg  - Identità e cambiamento (un libro fondamentale per capire gli aspetti traumatici dell’esperienza migratoria)
  • Silvia Amati Sas ( vari lavori sull’ambiguità, la vergogna)
  • Simona Argentieri - La Babele dell’inconscio (con altri autori sul tema del linguaggio)
  • Franz Fanon  - I dannati della terra (sui danni del colonialismo)
  • George Deveraux - Saggi di etnopsichiatria generale - Saggi di etnopsicoanalisi complementaristica (su psicologia transculturale e meticciato)
  • Marie Rose Moro – diversi lavori sulle famiglie di migranti
  • Tobie Nathan - La follia degli altri: saggi di etnopsichiatria, Princìpi di etnopsicoanalisi - Medici e stregoni: manifesto per una psicopatologia scientifica, il medico e il ciarlatano – il principale rappresentante dell’etnopsichiatria
  • Vanna Berlincioni I disturbi psichici degli immigrati: crisi dei progetti familiari?
  • Ambra Cusin (Vari lavori indicati su questo stesso sito)
  • Pumla Gobodo Madikizela – Morì un uomo quella notte – L’umanità dopo l’apartheid (sulle violenze in Sudafrica)
  • Nathalie Zaijde – I figli dei sopravvissuti (sulla trasmissione del trauma nei figli dei sopravvissuti alla Shoah)
  • Dina Wardi – Le candele della memoria (sulla trasmissione del trauma nei figli dei sopravvissuti alla Shoah)
  • Kogan
  • Maria Chiara Risoldi, Patrizia Brunori et. al. – Traumi di guerra (sulla guerra e la supervisione di un gruppo di psicologhe nella ex Jugoslavia durante la guerra dei Balcani)
  • Maria Patrizia Salatiello – Essere bambini a Gaza: il trauma infinito - (sull’esperienza della Salatiello in Palestina)

Dott.ssa Ambra Cusin
Psicologa Psicoterapeuta Psicoanalista a Trieste (TS)



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